domenica 9 agosto 2009

PASSAGGIO DI TESTIMONE

Stavamo facendo ritorno a casa. Le macchine erano bloccate nel traffico e c’era un freddo boia. Mi gocciolava il naso e avevo le orecchie e le mani gelate e Riccardo, mio fratello, dal sedile posteriore rideva di gusto scuotendomi la spalla. Eravamo tutti molto euforici, quella sera. Papà aveva disputato una partitella con degli amici al campo sportivo e ci aveva portati a vederlo. Giocò come attaccante, dando prova di grande talento, e firmò due reti. Ma a metà del secondo tempo lo vedemmo fermarsi a bordo campo. Si toccava la schiena e aveva il fiatone. Qualche minuto dopo si trovò costretto a uscire. Quella è gente che s’allena, ci aveva spiegato raggiungendoci sugli spalti dopo la fine della partita. Due, anche tre volte a settimana. Vorrei poterlo fare anch’io, ma dove lo trovo il tempo? Noi, dal canto nostro, gli facemmo notare che, allenamento o meno, era stato grande comunque e lui si schermì scherzando sui suoi trentasei anni.
Parcheggiammo sotto casa e io schizzai fuori dalla macchina e per abitudine mi attaccai al citofono un attimo prima di domandarmi cosa diavolo stessi facendo: in casa non poteva esserci nessuno. Il sorriso mi si spense e avvertii una vampata di calore bruciarmi lo stomaco. Ero sicuro che papà e mio fratello Riccardo avessero visto, ma non dissero niente e io evitai i loro sguardi per paura di trovarci i miei stessi pensieri. Era stato un pomeriggio insolito per noi. Ci eravamo divertiti un sacco e per delle lunghissime ore ci eravamo lasciati i problemi alle spalle e avevamo riassaporato il piacere della serenità. E dire che solo tre giorni prima papà aveva fatto il diavolo a quattro. Era stato informato dalla maestra delle cinque assenze di fila che Riccardo aveva collezionato a scuola, e lui aveva dovuto, suo malgrado, dichiararsene completamente all’oscuro. Ci fece, ricordo, una bella lavata di capo. Non l’avevamo mai visto così arrabbiato. Ci disse che era il momento, quello, che mio fratello e io cominciassimo a prenderci le nostre responsabilità. Più che le botte, mi è rimasta in mente quella frase: le nostre responsabilità. Il tempo della spensieratezza, ci disse, poteva dirsi concluso con la morte della mamma. Scoppiammo in singhiozzi. Il solo sentir nominare la mamma ci faceva allora un’enorme impressione. Papà continuò tuttavia a sgridarci ma, quando ci rifilò due ceffoni a testa e ci spedì a letto senza cena, anche i suoi occhi erano lucidi. Nei giorni che seguirono si dimostrò freddo, scorbutico e distante. Poi quella domenica, dopopranzo, lavati i piatti, era entrato nella nostra stanza con un sorriso largo così e ci aveva detto di lavarci e vestirci: ci avrebbe portati a vedere una partita…
Papà accese i termosifoni e andò a farsi una doccia calda. Aveva i brividi e gli dolevano le ossa. Io e Riccardo ingannammo il tempo giocando a pallone in soggiorno e papà non ci sgridò. Per cena l’aiutammo ad apparecchiare. Lui cucinò delle fettine di carne e mangiammo guardando i gol alla Domenica Sportiva. Poi chiacchierammo a lungo seduti sul divano. Papà si era messo un plaid sopra le gambe e aveva il naso chiuso e starnutiva. Gli chiedemmo della sua adolescenza, chi erano i suoi compagni di giochi, quante ore dedicasse al pallone e alla fine saltò fuori una vecchia foto di gruppo che ritraeva la squadra nella quale giocava papà. Aveva diciassette anni e tanti capelli in testa e un’espressione sorniona stampata sul viso glabro. La mamma, pensai, aveva fatto proprio bene a sposarselo: papà a quei tempi era decisamente un bel ragazzo.
“Papà?” chiamò Riccardo quando eravamo ormai tutti a letto.
“Che c’è, Riccardo?” gli rispose lui. Era febbricitante e batteva i denti.
“Mi sa che è una stupidaggine: niente!”
“Dilla lo stesso!”
Mio fratello si voltò su un fianco e si grattò la testa cercando le parole. “Mi sarebbe piaciuto tanto” disse “essere un tuo compagno di squadra quando eri giovane, come in quella foto. Ehm, giocare assieme a te, passarci la palla, sai, cose così, e dopo ogni gol abbracciarci e scivolare con te nell’erba… e poi… cos’altro volevo dire… ehm… era una stupidaggine, vero?”
“No, Riccardo. Non è per niente una stupidaggine” rispose papà tirando su col naso “Anzi, è bello quello che hai detto. Anch’io avrei voluto essere un tuo compagno di squadra. Adesso però dormite, domani avete la scuola.”
Accucciati sotto le coperte, io e Riccardo continuammo a parlottare e papà non disse niente. Poi scivolai in un piacevolissimo dormiveglia. Sognai di trovarmi all’interno di un cortile sconosciuto e silenzioso, un cortile dai tetti bassi, sapete, quei tetti con le tegole color ocra. Sopra c’era un cielo potente e fermo. E la luce. Era una luce chiara, mediterranea. Subito dopo riaprii gli occhi. Mio fratello era ancora sveglio e l’abat-jour era accesa. Si stava rigirando la foto di papà tra le mani. Aveva così tanto insistito per portarsela al letto che lui non se l’era proprio sentita di proibirglielo. Gli raccontai quello che avevo sognato, però non riuscii a spiegargli perché tutta l’atmosfera del sogno mi sembrava che avesse qualcosa a che fare con la mamma. Lei sta bene, mi veniva da dire. Chiesi a Riccardo perché non si mettesse a dormire. Lui posò la foto sul comodino, con il bordo più lungo contro il muro. Spense la luce e si girò su un fianco, quello sul quale di solito prendeva sonno più facilmente, e poi annunciò che avrebbe sognato la mamma di nuovo bella. Quel giorno fu un giorno di svolta, per me e per Riccardo. Fu in quel frangente che papà si conquistò idealmente il passaggio di testimone dalla mamma.

2 commenti:

  1. Benvenuto Antonio!
    Mi ha fatto molto piacere il tuo passaggio qualche giorno fa, sono subito corsa a leggerti come faccio sempre con un nuovo commento.
    Non ti ho risposto subito e qualcuno è arrivato prima di me, ma non importa...
    Scrivi molto bene.
    Da piccola avevo una collezione di biglie colorate!
    A presto.
    http://barbieblog.wordpress.com/

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