a Cinzia
I
I due fratelli, di otto e sette anni, sono in cucina davanti alla porta che guardano le gocce di pioggia che a contatto con il pavimento del terrazzo formano delle piccole bollicine. Hanno lo stesso taglio d’occhi e la stessa malinconia nello sguardo. È il febbraio del 1989, un pomeriggio, e a parte alcune ore durante la notte, piove ininterrottamente da tre giorni, così che i due fratelli non mettono il naso fuori di casa da domenica, quando la mamma li ha mandati controvoglia a messa. Il ragazzo più grande ha le mani nelle tasche dei jeans e il braccio destro del fratello attorno alle spalle. Scuote la testa. Non smette, dice sforzandosi di apparire più triste e arrabbiato di quanto non sia. Mi sa anche a me, replica l’altro. Quando fa le bollicine in quel modo mi sa che non spiove tanto facilmente, o no?, chiede. Torniamo a giocare, risponde il ragazzo più grande, lascia che la tenda si richiuda davanti a loro ed entrambi spariscono all’interno della stanza. Fuori ci sono delle nuvole enormi e compatte. Le biciclette dei ragazzi sono state accostate sotto la gronda per non bagnarsi e invece si bagnano lo stesso per via del vento che spinge la pioggia contro il muro sotto la piccola finestra.
II
I due fratelli tornano a sdraiarsi sul pavimento del corridoio a pancia in giù. Una decina di pupazzetti, cinque a testa, si stanno disputando la finale per la coppa. Il perimetro del campo sul quale avviene la partita è stato realizzato con dei fili di spaghetti che la mamma, vedendoli così disperatamente annoiati, gli ha permesso di sfilare da una confezione di pasta già aperta. I due ragazzi ci mettono tutto l’impegno possibile perché si delinei una gara spettacolare, emozionante e combattuta fino alla fine, con acrobazie di ogni tipo e colpi di scena inaspettati. Dieci minuti dopo, il secondo tempo si sta per concludere con un punteggio di 5 a 3 per la squadra del fratello più grande, quando al ragazzo più piccolo viene in mente che se la sua squadra agguantasse il pareggio all’ultimo secondo della partita sarebbe davvero una gran bella cosa. Nessuno degli spettatori allo stadio – perché nella fantasia dei due fratelli lo stadio è ovviamente stracolmo di spettatori – se lo aspetterebbe mai, dice. Il ragazzo che fino a qualche istante prima pensava di avere in pugno quell’importante finale guarda il fratello dritto negli occhi e poi deglutisce. Ci pensa un po’ su e poi a malincuore acconsente alla proposta. Però, aggiunge, i due gol saranno il primo un autogol e il secondo un calcio di rigore, altrimenti non se ne fa niente. Ci sto, esplode l’altro con un sorriso che mette in mostra l’irregolarità dei suoi denti superiori. Erano così diplomatici l’uno nei confronti dell’altro che la loro mamma stentava a crederlo possibile.
III
I due fratelli decidono di fare una pausa. Hanno le ossa tutte indolenzite e vogliono andare a vedere dalla porta della cucina se per caso ha smesso di piovere. Dopo il pareggio pattuito, la partita si era arenata un po’. Nessuna emozione degna di nota a parte la traversa colpita dalla squadra del più grande sullo scadere dei tempi regolamentari. Non piooove, sussurra stupito il ragazzo più piccolo dopo aver scostato la tenda e passato il dorso della mano sulla superficie del vetro per eliminare la condensa. Guarda, dice al fratello battendogli una mano sulla schiena e invitandolo ad avvicinarsi. Hanno sempre questo strano bisogno di un contatto fisico. Peccato che è troppo tardi per uscire, sospira il ragazzo più grande massaggiandosi un braccio. Che tardi e tardi, protesta l’altro. Dei due, il piccolo è senza dubbio il più vivace. Ha il viso un po’ più affilato del fratello maggiore, un colorito più scuro, i capelli che danno su un biondo paglia. La mamma, gli fa notare il grande. Quella ci prende, a me e a te, ci prende e ci sbatte la testa nel muro se gli chiediamo di uscire, dice. Tanto tra poco piove di nuovo, vaticina gettando un’occhiata poco convinta al cielo. E poi sta per fare buio. Ma il piccolo lo inchioda: Se non vuoi uscire, gli dice, non cercare scuse. Ancora le quattro, sono. E i tempi supplementari della partita?, protesta il ragazzo più grande.
IV
I due fratelli stanno correndo lungo una stradina in salita, uno avanti e l’altro dietro. C’è un sacco di acqua che scorre giù proveniente dalla parte alta del paese, e nell’euforia della corsa i due cominciano a bagnarsi le scarpe e il di sotto dei jeans. Delle nuvole grigie sfilacciate attraversano rapidamente il cielo, ma non sembra ci sia la possibilità concreta che possa piovere di nuovo, o almeno non nell’immediato. In cima alla salita abita un loro amico. Ai due ragazzi resta un’altra ora abbondante di luce, prima che il sopraggiungere del buio li costringa, come promesso alla madre, a far ritorno a casa. L’aria che inspirano è fredda e pungente e ogni boccata provoca ai due un piacevolissimo bruciore per tutto l’apparato respiratorio. È come se lentamente la vita si rimettesse in circolo nei loro corpi intorpiditi da una inattività durata ben tre giorni. Ora il ragazzo più grande prova un senso di gratitudine per la caparbietà dimostrata dal fratello davanti ai ripetuti dinieghi della madre. Una corsa del genere ci voleva proprio, pensa. Adesso guarda il fratello che, giunto al termine della salita, spicca un salto con grande agilità evitando una pozzanghera, e lo ammira e sente il petto gonfiarsi di un amore gratuito e illimitato, un amore che sa ricambiato anche senza chiederne conferma.
V
Per l’esattezza, è il 9 febbraio 1989 e i due fratelli si chiamano Salvatore e Lorenzo. Fino a non più tardi di una decina di anni dopo, ma non oltre, hanno cullato senza saperlo l’idea adolescenziale che il bene dell’uno avrebbe sempre coinciso con il bene dell’altro; che la loro esistenza, pur con le sottili ma inevitabili differenze, sarebbe stata in ogni caso iscritta all’interno dello stesso solco; che, infine, se uno dei due in un qualsiasi momento avesse voluto il conforto dell’altro gli sarebbe bastato allungare un braccio per sfiorare la spalla del fratello e suggerne a sazietà. Come era successo del resto quel pomeriggio del 9 febbraio 1989 davanti ai vetri della porta della cucina quando, per consolarsi vicendevolmente della noia che li affliggeva, i due si sono messi a guardare la pioggia abbracciati. Ecco, ingenuamente avevano pensato che era così, abbracciati e solidali, che avrebbero trascorso la vita, che era così che doveva essere. Poi, senza un perché, si sono alzati degli steccati insormontabili e la polvere di una diffidenza immotivata ha cominciato a fare scricchiolare gli ingranaggi dell’amore. Finché un giorno scoprirono con terrore che non avevano più niente da dirsi. Ancora anni dopo, Salvatore, il fratello più grande, ogni tanto si fermava a pensare impotente alla triste vicenda. E un giorno gli venne in mente una metafora, quella della Y. La lettera dell’alfabeto latino, infatti, con la caratteristica biforcazione finale era la perfetta metafora di due vite dapprima ricalcabili l’una sull’altra e dopo così distanti da sembrare estranee. Lontana dal consolarlo, la freddezza di quella metafora lo gettò nello sconforto acuendogli il rimorso per un periodo sufficientemente lungo. Fin quando un giorno, dopo averne parlato diffusamente con una sconosciuta in un bar di una città straniera, semplicemente non ci pensò più.