martedì 18 agosto 2009

ASFALTO SCONNESSO

...ma l'idillio è solo apparente. La foto pubblicata precedentemente provava a scimmiottare una di quelle cartoline che ogni turista ama portarsi a casa dopo una vacanza più o meno lunga in Sicilia. Ma una cartolina del genere, fermandosi come fa alla superficie delle cose, poco o niente dice del territorio. Altre sono le foto che di una città (Biancavilla, nel mio caso) sanno rivelare l'intimo. Poco importa se nel tentativo di scandagliare le profondità ci imbattiamo in cose che non si vorrebbero vedere o che ci farebbe comodo non sapere.
In Italia ci sono ben 49 comuni a rischio amianto, 3 si trovano in Sicilia, 1 di questi è Biancavilla. L'area in cui si trova questo minerale è principalmente il Monte Calvario, una cava da cui a partire dagli anni '50 sono state estratte tonnelate di pietrame destinato alla costruzione edilizia. Nella stragrande maggioranza dei lavori di ristrutturazione o di nuove edificazioni è stato utilizzato materiale estratto da questa cava, ragion per cui tracce di amianto si trovano su tutto il territorio comunale. La prolungata esposizione a questo minerale provoca tumore maligno alla pleura (in sostanza, ai polmoni). E in effetti l'incidenza di questo tipo di tumore a Biancavilla è molto superiore rispetto alla media nazionale. Pensate: un caso ogni 5 anni secondo la media nazionale contro i 2 o 3 all'anno del comune etneo. Al fine di neutralizzare o quanto meno ridimensionare la pericolosità delle polveri di amianto, alcune strade (non tutte, purtroppo) della periferia del paese sono state asfaltate. Nella foto che ho riportato sopra potete constatare come nel giro di pochi anni l'asfalto stia lentamente venendo via, e come riemergano le vecchie mattonelle che prima pavimentavano le nostre strade. Quasi a sottolineare che la partita non è ancora vinta, che il passato (e quindi il pericolo) non è ancora passato, che molto si deve ancora fare. Innanzitutto l'asfaltatura completa di altre vie periferiche (che ha già ricevuto i fondi, vedi http://www.qds.it/index.php?sez=articolo&skip_interstitial=true&id=996),
l'incapsulamento degli intonaci delle case e soprattutto la messa in sicurezza della cava stessa. Ma c'è un'altra cosa che andrebbe modificata: l'atavica indifferenza dei biancavillesi, gli insopportabili atteggiamenti di rassegnazione e fatalismo. Qui si tratta di salvare le nostre vite e quelle dei nostri figli. L'indifferenza non salva nessuno. Chiedo più soldi, più soldi spesi bene nell'interesse della cittadinanza, più coscienza civile, più fiducia nella scienza.

martedì 11 agosto 2009

ETNA D'AGOSTO



Qui di fianco l'immagine di un campo di ortaggi, l'ultimo
lembo di Biancavilla in direzione Adrano e, sullo sfondo, un'Etna agostana, il cielo terso, qualche nuvola... un idillio...

domenica 9 agosto 2009

PASSAGGIO DI TESTIMONE

Stavamo facendo ritorno a casa. Le macchine erano bloccate nel traffico e c’era un freddo boia. Mi gocciolava il naso e avevo le orecchie e le mani gelate e Riccardo, mio fratello, dal sedile posteriore rideva di gusto scuotendomi la spalla. Eravamo tutti molto euforici, quella sera. Papà aveva disputato una partitella con degli amici al campo sportivo e ci aveva portati a vederlo. Giocò come attaccante, dando prova di grande talento, e firmò due reti. Ma a metà del secondo tempo lo vedemmo fermarsi a bordo campo. Si toccava la schiena e aveva il fiatone. Qualche minuto dopo si trovò costretto a uscire. Quella è gente che s’allena, ci aveva spiegato raggiungendoci sugli spalti dopo la fine della partita. Due, anche tre volte a settimana. Vorrei poterlo fare anch’io, ma dove lo trovo il tempo? Noi, dal canto nostro, gli facemmo notare che, allenamento o meno, era stato grande comunque e lui si schermì scherzando sui suoi trentasei anni.
Parcheggiammo sotto casa e io schizzai fuori dalla macchina e per abitudine mi attaccai al citofono un attimo prima di domandarmi cosa diavolo stessi facendo: in casa non poteva esserci nessuno. Il sorriso mi si spense e avvertii una vampata di calore bruciarmi lo stomaco. Ero sicuro che papà e mio fratello Riccardo avessero visto, ma non dissero niente e io evitai i loro sguardi per paura di trovarci i miei stessi pensieri. Era stato un pomeriggio insolito per noi. Ci eravamo divertiti un sacco e per delle lunghissime ore ci eravamo lasciati i problemi alle spalle e avevamo riassaporato il piacere della serenità. E dire che solo tre giorni prima papà aveva fatto il diavolo a quattro. Era stato informato dalla maestra delle cinque assenze di fila che Riccardo aveva collezionato a scuola, e lui aveva dovuto, suo malgrado, dichiararsene completamente all’oscuro. Ci fece, ricordo, una bella lavata di capo. Non l’avevamo mai visto così arrabbiato. Ci disse che era il momento, quello, che mio fratello e io cominciassimo a prenderci le nostre responsabilità. Più che le botte, mi è rimasta in mente quella frase: le nostre responsabilità. Il tempo della spensieratezza, ci disse, poteva dirsi concluso con la morte della mamma. Scoppiammo in singhiozzi. Il solo sentir nominare la mamma ci faceva allora un’enorme impressione. Papà continuò tuttavia a sgridarci ma, quando ci rifilò due ceffoni a testa e ci spedì a letto senza cena, anche i suoi occhi erano lucidi. Nei giorni che seguirono si dimostrò freddo, scorbutico e distante. Poi quella domenica, dopopranzo, lavati i piatti, era entrato nella nostra stanza con un sorriso largo così e ci aveva detto di lavarci e vestirci: ci avrebbe portati a vedere una partita…
Papà accese i termosifoni e andò a farsi una doccia calda. Aveva i brividi e gli dolevano le ossa. Io e Riccardo ingannammo il tempo giocando a pallone in soggiorno e papà non ci sgridò. Per cena l’aiutammo ad apparecchiare. Lui cucinò delle fettine di carne e mangiammo guardando i gol alla Domenica Sportiva. Poi chiacchierammo a lungo seduti sul divano. Papà si era messo un plaid sopra le gambe e aveva il naso chiuso e starnutiva. Gli chiedemmo della sua adolescenza, chi erano i suoi compagni di giochi, quante ore dedicasse al pallone e alla fine saltò fuori una vecchia foto di gruppo che ritraeva la squadra nella quale giocava papà. Aveva diciassette anni e tanti capelli in testa e un’espressione sorniona stampata sul viso glabro. La mamma, pensai, aveva fatto proprio bene a sposarselo: papà a quei tempi era decisamente un bel ragazzo.
“Papà?” chiamò Riccardo quando eravamo ormai tutti a letto.
“Che c’è, Riccardo?” gli rispose lui. Era febbricitante e batteva i denti.
“Mi sa che è una stupidaggine: niente!”
“Dilla lo stesso!”
Mio fratello si voltò su un fianco e si grattò la testa cercando le parole. “Mi sarebbe piaciuto tanto” disse “essere un tuo compagno di squadra quando eri giovane, come in quella foto. Ehm, giocare assieme a te, passarci la palla, sai, cose così, e dopo ogni gol abbracciarci e scivolare con te nell’erba… e poi… cos’altro volevo dire… ehm… era una stupidaggine, vero?”
“No, Riccardo. Non è per niente una stupidaggine” rispose papà tirando su col naso “Anzi, è bello quello che hai detto. Anch’io avrei voluto essere un tuo compagno di squadra. Adesso però dormite, domani avete la scuola.”
Accucciati sotto le coperte, io e Riccardo continuammo a parlottare e papà non disse niente. Poi scivolai in un piacevolissimo dormiveglia. Sognai di trovarmi all’interno di un cortile sconosciuto e silenzioso, un cortile dai tetti bassi, sapete, quei tetti con le tegole color ocra. Sopra c’era un cielo potente e fermo. E la luce. Era una luce chiara, mediterranea. Subito dopo riaprii gli occhi. Mio fratello era ancora sveglio e l’abat-jour era accesa. Si stava rigirando la foto di papà tra le mani. Aveva così tanto insistito per portarsela al letto che lui non se l’era proprio sentita di proibirglielo. Gli raccontai quello che avevo sognato, però non riuscii a spiegargli perché tutta l’atmosfera del sogno mi sembrava che avesse qualcosa a che fare con la mamma. Lei sta bene, mi veniva da dire. Chiesi a Riccardo perché non si mettesse a dormire. Lui posò la foto sul comodino, con il bordo più lungo contro il muro. Spense la luce e si girò su un fianco, quello sul quale di solito prendeva sonno più facilmente, e poi annunciò che avrebbe sognato la mamma di nuovo bella. Quel giorno fu un giorno di svolta, per me e per Riccardo. Fu in quel frangente che papà si conquistò idealmente il passaggio di testimone dalla mamma.

sabato 8 agosto 2009

DOPO TRE GIORNI DI PIOGGIA

a Cinzia

I
I due fratelli, di otto e sette anni, sono in cucina davanti alla porta che guardano le gocce di pioggia che a contatto con il pavimento del terrazzo formano delle piccole bollicine. Hanno lo stesso taglio d’occhi e la stessa malinconia nello sguardo. È il febbraio del 1989, un pomeriggio, e a parte alcune ore durante la notte, piove ininterrottamente da tre giorni, così che i due fratelli non mettono il naso fuori di casa da domenica, quando la mamma li ha mandati controvoglia a messa. Il ragazzo più grande ha le mani nelle tasche dei jeans e il braccio destro del fratello attorno alle spalle. Scuote la testa. Non smette, dice sforzandosi di apparire più triste e arrabbiato di quanto non sia. Mi sa anche a me, replica l’altro. Quando fa le bollicine in quel modo mi sa che non spiove tanto facilmente, o no?, chiede. Torniamo a giocare, risponde il ragazzo più grande, lascia che la tenda si richiuda davanti a loro ed entrambi spariscono all’interno della stanza. Fuori ci sono delle nuvole enormi e compatte. Le biciclette dei ragazzi sono state accostate sotto la gronda per non bagnarsi e invece si bagnano lo stesso per via del vento che spinge la pioggia contro il muro sotto la piccola finestra.

II

I due fratelli tornano a sdraiarsi sul pavimento del corridoio a pancia in giù. Una decina di pupazzetti, cinque a testa, si stanno disputando la finale per la coppa. Il perimetro del campo sul quale avviene la partita è stato realizzato con dei fili di spaghetti che la mamma, vedendoli così disperatamente annoiati, gli ha permesso di sfilare da una confezione di pasta già aperta. I due ragazzi ci mettono tutto l’impegno possibile perché si delinei una gara spettacolare, emozionante e combattuta fino alla fine, con acrobazie di ogni tipo e colpi di scena inaspettati. Dieci minuti dopo, il secondo tempo si sta per concludere con un punteggio di 5 a 3 per la squadra del fratello più grande, quando al ragazzo più piccolo viene in mente che se la sua squadra agguantasse il pareggio all’ultimo secondo della partita sarebbe davvero una gran bella cosa. Nessuno degli spettatori allo stadio – perché nella fantasia dei due fratelli lo stadio è ovviamente stracolmo di spettatori – se lo aspetterebbe mai, dice. Il ragazzo che fino a qualche istante prima pensava di avere in pugno quell’importante finale guarda il fratello dritto negli occhi e poi deglutisce. Ci pensa un po’ su e poi a malincuore acconsente alla proposta. Però, aggiunge, i due gol saranno il primo un autogol e il secondo un calcio di rigore, altrimenti non se ne fa niente. Ci sto, esplode l’altro con un sorriso che mette in mostra l’irregolarità dei suoi denti superiori. Erano così diplomatici l’uno nei confronti dell’altro che la loro mamma stentava a crederlo possibile.

III

I due fratelli decidono di fare una pausa. Hanno le ossa tutte indolenzite e vogliono andare a vedere dalla porta della cucina se per caso ha smesso di piovere. Dopo il pareggio pattuito, la partita si era arenata un po’. Nessuna emozione degna di nota a parte la traversa colpita dalla squadra del più grande sullo scadere dei tempi regolamentari. Non piooove, sussurra stupito il ragazzo più piccolo dopo aver scostato la tenda e passato il dorso della mano sulla superficie del vetro per eliminare la condensa. Guarda, dice al fratello battendogli una mano sulla schiena e invitandolo ad avvicinarsi. Hanno sempre questo strano bisogno di un contatto fisico. Peccato che è troppo tardi per uscire, sospira il ragazzo più grande massaggiandosi un braccio. Che tardi e tardi, protesta l’altro. Dei due, il piccolo è senza dubbio il più vivace. Ha il viso un po’ più affilato del fratello maggiore, un colorito più scuro, i capelli che danno su un biondo paglia. La mamma, gli fa notare il grande. Quella ci prende, a me e a te, ci prende e ci sbatte la testa nel muro se gli chiediamo di uscire, dice. Tanto tra poco piove di nuovo, vaticina gettando un’occhiata poco convinta al cielo. E poi sta per fare buio. Ma il piccolo lo inchioda: Se non vuoi uscire, gli dice, non cercare scuse. Ancora le quattro, sono. E i tempi supplementari della partita?, protesta il ragazzo più grande.
IV

I due fratelli stanno correndo lungo una stradina in salita, uno avanti e l’altro dietro. C’è un sacco di acqua che scorre giù proveniente dalla parte alta del paese, e nell’euforia della corsa i due cominciano a bagnarsi le scarpe e il di sotto dei jeans. Delle nuvole grigie sfilacciate attraversano rapidamente il cielo, ma non sembra ci sia la possibilità concreta che possa piovere di nuovo, o almeno non nell’immediato. In cima alla salita abita un loro amico. Ai due ragazzi resta un’altra ora abbondante di luce, prima che il sopraggiungere del buio li costringa, come promesso alla madre, a far ritorno a casa. L’aria che inspirano è fredda e pungente e ogni boccata provoca ai due un piacevolissimo bruciore per tutto l’apparato respiratorio. È come se lentamente la vita si rimettesse in circolo nei loro corpi intorpiditi da una inattività durata ben tre giorni. Ora il ragazzo più grande prova un senso di gratitudine per la caparbietà dimostrata dal fratello davanti ai ripetuti dinieghi della madre. Una corsa del genere ci voleva proprio, pensa. Adesso guarda il fratello che, giunto al termine della salita, spicca un salto con grande agilità evitando una pozzanghera, e lo ammira e sente il petto gonfiarsi di un amore gratuito e illimitato, un amore che sa ricambiato anche senza chiederne conferma.
V

Per l’esattezza, è il 9 febbraio 1989 e i due fratelli si chiamano Salvatore e Lorenzo. Fino a non più tardi di una decina di anni dopo, ma non oltre, hanno cullato senza saperlo l’idea adolescenziale che il bene dell’uno avrebbe sempre coinciso con il bene dell’altro; che la loro esistenza, pur con le sottili ma inevitabili differenze, sarebbe stata in ogni caso iscritta all’interno dello stesso solco; che, infine, se uno dei due in un qualsiasi momento avesse voluto il conforto dell’altro gli sarebbe bastato allungare un braccio per sfiorare la spalla del fratello e suggerne a sazietà. Come era successo del resto quel pomeriggio del 9 febbraio 1989 davanti ai vetri della porta della cucina quando, per consolarsi vicendevolmente della noia che li affliggeva, i due si sono messi a guardare la pioggia abbracciati. Ecco, ingenuamente avevano pensato che era così, abbracciati e solidali, che avrebbero trascorso la vita, che era così che doveva essere. Poi, senza un perché, si sono alzati degli steccati insormontabili e la polvere di una diffidenza immotivata ha cominciato a fare scricchiolare gli ingranaggi dell’amore. Finché un giorno scoprirono con terrore che non avevano più niente da dirsi. Ancora anni dopo, Salvatore, il fratello più grande, ogni tanto si fermava a pensare impotente alla triste vicenda. E un giorno gli venne in mente una metafora, quella della Y. La lettera dell’alfabeto latino, infatti, con la caratteristica biforcazione finale era la perfetta metafora di due vite dapprima ricalcabili l’una sull’altra e dopo così distanti da sembrare estranee. Lontana dal consolarlo, la freddezza di quella metafora lo gettò nello sconforto acuendogli il rimorso per un periodo sufficientemente lungo. Fin quando un giorno, dopo averne parlato diffusamente con una sconosciuta in un bar di una città straniera, semplicemente non ci pensò più.

venerdì 7 agosto 2009

L'ATTO DI NASCITA

Oggi 07/08/09 è nato il mio blog "La biglia".
Notate la data: 07/08/09, numeri progressivi. Ad maiora!

SENZA TITOLO

Nel mormorio
di luce di un fine pomeriggio d’estate
un bambino.
Non guarda l’obiettivo che sta per frugargli le viscere
e consegnarlo al futuro
grazie al lampo di un flash.
Vorrei gridargli: Oh, svegliati, alza la testa,
fammi un saluto fiducioso!
Ma non in tono
di rimprovero. Perché poi,
confesso,
non riesce proprio
a dispiacermi l’esserci
e non concedersi
del bambino della foto.

PRIMO POST

Prima o poi la tua BIGLIA finisce in buca. Questo è l'augurio iniziale per il mio nuovo blog. E per tutti quelli che vorrano seguirne le gesta.